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CAPITALE UMANO  |  STORIE DI RICERCA

Mazzucco: "Sosteniamo la ricerca scientifica per rilanciare il futuro dei nostri territori"

1 settembre 2023  |  Tempo di lettura: 8 minuti

Dal Pnrr alle iniziative della Fondazione, il presidente di Cariverona traccia la rotta: “Dobbiamo puntare sull’innovazione in campo energetico e su nuovi modelli di gestione, come nel Regno Unito”

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“Date a un uomo un pesce e mangerà un giorno. Insegnategli a pescare e mangerà tutta la vita”. Il presidente di Fondazione Cariverona, Alessandro Mazzucco, ricorre a un aforisma attribuito a Confucio per raccontare il ruolo della Fondazione. “Dobbiamo dedicare le nostre risorse a strumenti che creino reali opportunità di sviluppo per le comunità, investendo nel potenziamento delle competenze”.

In questa visione, sintetizzata dai documenti programmatici, la ricerca scientifica gioca un ruolo da protagonista e permea tutti gli obiettivi strategici della Fondazione: “È un formidabile strumento di progresso, in grado di innescare percorsi di crescita virtuosi, contro ogni logica assistenzialista”. Nonostante un panorama nazionale poco confortante, le iniziative sostenute da Cariverona puntano a tracciare una nuova rotta innescando processi d’innovazione per il futuro dei territori.

Presidente Mazzucco, lei è stato cardiochirurgo in Italia e all’estero, professore universitario, rettore dell’ateneo di Verona per quasi dieci anni, da otto presidente di Fondazione Cariverona. Che significato ha per lei la ricerca scientifica?

La ricerca scientifica è un formidabile strumento di progresso, che scaturisce da una pulsione istintiva dell’uomo. È il desiderio innato di acquisire la conoscenza di fenomeni di cui non abbiamo piena comprensione, mosso non solo dalla necessità di ottenere informazioni utili per la nostra sopravvivenza, ma anche dalla passione per il sapere. In questa visione, non c’è spazio per gli interessi di parte, le finalità commerciali o i giochi di potere: quando subentrano queste dimensioni, la scienza può essere manipolata e utilizzata contro il bene dell’uomo, arrivando a contribuire a drammi quali guerre e crisi climatica.

Nonostante la centralità del tema, nel 2021 l’Italia ha però investito meno dell’1,5% del Pil in ricerca e sviluppo, a fronte di una media europea del 2,3%. Siamo 14esimi dietro Paesi quali Germania, Francia, Austria e Svezia. Oltreoceano, gli Stati Uniti destinano addirittura il 3,5% al settore. Come mai questo ritardo cronico?

Al di là delle quantità, penso che in Italia ci sia una grave carenza nella capacità di amministrare i fondi destinati a questo settore. Siamo gli unici tra i Paesi occidentali a non avere un’agenzia governativa o un ente centralizzato che controlli il finanziamento, sorvegli le erogazioni e vigili sulla qualità della ricerca. Abbiamo una miriade di uffici pubblici che se ne occupano senza una visione sistemica, con una frammentazione eccessiva delle risorse: si pensi, ad esempio, al sistema del 5 per mille che ha 360mila enti iscritti. Nonostante questo impatti negativamente sull’efficacia del nostro sistema, possiamo ancora contare su eccellenze internazionali in diversi ambiti.

“La ricerca scientifica è un formidabile strumento di progresso. È il desiderio innato di acquisire la conoscenza di fenomeni di cui non abbiamo piena comprensione, mosso non solo dalla necessità di ottenere informazioni utili, ma anche dalla passione per il sapere”

Le carenze amministrative e gestionali di cui parla rischiano di mettere a rischio l’attuazione del Pnrr? L’Unione europea ha messo a nostra disposizione 31 miliardi di euro dedicati a istruzione e ricerca (16% del totale). Come andrebbero spese queste risorse? Quali pensa siano le priorità per la ricerca del nostro Paese?

Il Pnrr è un’occasione irripetibile, che l’Italia non deve lasciarsi sfuggire, anche se l’approccio che ho visto finora non promette bene. Se fossi il presidente del Consiglio, per prima cosa, analizzerei tutti i settori della ricerca per valutarne lo stato dell’arte, per poi decidere dove investire. Penso che, a conti fatti, emergerebbe la necessità di puntare sulla ricerca in campo energetico. Il tema della transizione ecologica è cruciale non solo per rispondere alla crisi climatica, ma anche per risolvere le sfide geopolitiche. È quello che sta avvenendo in Germania, che si sta già muovendo con decisione in questa direzione.

Guardando fuori dai nostri confini, quali sono i Paesi che, secondo lei, stanno facendo meglio nel settore della ricerca?

Gli Stati Uniti sono i primi in assoluto. Ma sono un Paese fuori categoria, che ha la possibilità di destinare al settore della ricerca oltre 500 miliardi di dollari. Segue la Cina, che ha fatto passi da gigante in tanti campi, anche se l’indice di ritrattazione di articoli scientifici rimane il più alto al mondo. La nostra Europa è al terzo posto: a guidarla è la Germania, con 100 miliardi di euro di investimenti, mentre la Francia, che fino a qualche anno fa era addirittura dietro all’Italia, ora ci ha superato, nonostante le polemiche sulla situazione disastrosa dei laboratori pubblici. Sono però convinto che il vero modello da seguire sia il Regno Unito.

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L'Università di Oxford, nel Regno Unito

Perché? Quali sono le caratteristiche di questo sistema?

Gli indicatori mostrano che il Regno Unito è il primo Paese per rapporto tra fondi erogati e qualità della ricerca. Se confrontato per esempio con la Francia, spende meno e produce di più. Abbiamo tanto da imparare. Rispetto all’Italia, gli atenei inglesi hanno piena autonomia di reclutamento e di gestione delle risorse umane, con meccanismi simili a quelli del settore privato. I finanziamenti, poi, sono distribuiti secondo criteri trasparenti e meritocratici.

Cosa dovrebbe fare l’Italia per avvicinarsi al modello britannico?

Sicuramente aumentare un po’ i fondi alla ricerca, per poi lasciare alle università una maggiore autonomia gestionale. Sarebbe inoltre utile introdurre un sistema simile al Research Assessment Exercise (Rae) inglese, grazie al quale i fondi vengono erogati direttamente all’ateneo e non agli individui o al singolo dipartimento. Tutto questo andrebbe a vantaggio della trasparenza e della meritocrazia: i rettori – sapendo che una ricerca poco produttiva rappresenterebbe un costo per tutta la struttura – sarebbero incentivati a investire sulle risorse migliori, premiando i giovani di talento.

“Rispetto all’Italia, gli atenei inglesi hanno piena autonomia di reclutamento e di gestione delle risorse umane, con meccanismi simili a quelli del settore privato. I finanziamenti, poi, sono distribuiti secondo criteri trasparenti e meritocratici”

Strumenti come il Rae potrebbero quindi contribuire a contenere l’emorragia dei cervelli in fuga? Nel giro di dieci anni il nostro Paese ha perso 74mila giovani laureati che hanno deciso di trasferirsi all’estero attratti da migliori opportunità lavorative.

Assolutamente sì. Creare meccanismi di gestione e di selezione che premino il merito è essenziale per sconfiggere il personalismo ed eliminare sistemi basati su conoscenze personali, scambi di favori e raccomandazioni. In questo modo non solo convinceremmo i nostri migliori studenti a rimanere in Italia, ma attireremmo anche cervelli provenienti da altri Paesi. Le premesse per innescare un nuovo circolo virtuoso ci sono.

Veniamo al ruolo delle fondazioni di origine bancaria. Quant’è importante la ricerca scientifica per Fondazione Cariverona?

Quando sono diventato presidente di Fondazione Cariverona, ho introdotto un nuovo modo di lavorare basato su documenti di programmazione triennali: il secondo dei tre obiettivi strategici che, come Fondazione, ci siamo dati riguarda proprio lo sviluppo del capitale umano e delle nuove competenze, soprattutto tra i giovani, in ambito scolastico e universitario, con un occhio di riguardo all’inserimento nel mondo del lavoro. Ma più in generale il tema della ricerca scientifica e dell’innovazione permea ogni ambito del nostro intervento: siamo convinti che questa sia l’unica strada per rispondere alle grandi sfide del nostro tempo, creando opportunità di sviluppo e rilanciando il futuro dei nostri territori.

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Con quali iniziative sostenete questo settore?

Negli ultimi anni abbiamo lanciato numerosi bandi a sostegno della ricerca scientifica, come Ricerca e Sviluppo o Habitat, legato alla lotta al cambiamento climatico. Puntiamo inoltre a innovare il mondo della scuola e dell’università, facilitando il dialogo con i territori. Abbiamo recentemente dato il via a una nuova edizione del programma Upskill, il cui obiettivo è colmare il gap tra imprese e formazione tecnica coinvolgendo i giovani degli ITS per rispondere ai bisogni di innovazione. A livello universitario, sono convinto sia necessario promuovere nuovi corsi di laurea tecnologici, che preparino gli studenti alle professioni del futuro: è quanto abbiamo fatto, ad esempio, all’Università di Verona, contribuendo a inaugurare un percorso in inglese sulla ricerca scientifica in ambito medico. Centrale è anche il tema delle competenze digitali: con le altre fondazioni di origine bancaria, sosteniamo il Fondo per la Repubblica Digitale, istituito dal governo Draghi, il cui obiettivo è facilitare la transizione digitale, formando le nuove generazioni allo sviluppo di nuove skills.

Dal cambiamento climatico alla sanità, viviamo un momento storico caratterizzato da una forte tendenza a mettere in discussione i metodi della scienza. Cosa c’è all’origine di questo sentimento? Quant’è importante l’educazione delle nuove generazioni?

Penso che queste nuove forme di negazionismo siano innanzitutto frutto dell’ignoranza e delle scarse conoscenze scientifiche. Anche per questo, come fondazione, abbiamo lanciato bandi quali Format che – tra le altre cose – mira proprio ad avvicinare i giovani alle discipline Steam. C’è da dire che parte della responsabilità è dei media: spesso, infatti, nei talk show televisivi o sulle pagine dei quotidiani vengono messe sullo stesso piano opinioni scientifiche e antiscientifiche. Viene loro dedicato lo stesso spazio, come se avessero lo stesso valore. Così la voce di quella che è – ci tengo a dire – una sparuta minoranza viene amplificata. L’esempio della campagna di vaccinazione anti-Covid, in questo senso, è illuminante. Ma è anche ora che istituzioni, fondazioni e tutte le persone che si occupano di scienza facciano sentire di più e meglio la propria voce: dobbiamo uscire dalle torri d’avorio delle aule e dei laboratori universitari per raccontare i formidabili risultati ottenuti dalla ricerca, che aiuta non solo l’uomo ma anche il Pianeta a vivere meglio, con un linguaggio accessibile a tutti, soprattutto alle nuove generazioni.

“Negli ultimi anni, come Fondazione, abbiamo lanciato numerosi bandi a sostegno della ricerca scientifica. Puntiamo inoltre a innovare il mondo della scuola e dell’università, facilitando il dialogo con i territori e il mondo del lavoro”

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