Per rendere i nostri luoghi attrattivi serve una nuova idea di città: connessa, inclusiva, progettata per chi la abita. Federico Parolotto, CEO di MIC-HUB, ci racconta perché ripensare lo spazio pubblico è una sfida politica e culturale, prima ancora che tecnica

Cosa spinge davvero un giovane a restare o ad andarsene dalla propria terra d’origine? Non è solo una questione di lavoro o di casa. C’entra anche come ti muovi, dove ti muovi, come vivi lo spazio urbano che hai attorno.
La mobilità non è una variabile tecnica, per addetti ai lavori: è una leva di qualità della vita. E oggi, è anche una leva di attrattività, di competitività dei territori. Perché chi ha venti o trent’anni, sempre più spesso, sceglie dove vivere anche in base a quanto una città funziona.
È uno dei dati chiave emersi dalla ricerca Futuro Qui!, realizzata con Upskill 4.0, che abbiamo voluto approfondire con Federico Parolotto, urbanista, esperto di mobilità e CEO di MIC-HUB, studio internazionale che si occupa di pianificazione dei trasporti e trasformazioni urbane. Lo abbiamo incontrato per farci raccontare qual è lo stato della mobilità nei territori dove abitiamo e, soprattutto, come possiamo renderli più vivibili e desiderabili per le nuove generazioni.
“La mobilità non è solo fondamentale per la qualità della vita, ma è anche una leva di attrattività dei territori. Perché chi ha venti o trent’anni sceglie dove vivere anche in base a come ci si muove in città”
Quanto pesa la mobilità nella scelta di un giovane di restare o andarsene da una città o un territorio?
Pesa tantissimo. Non è solo questione di spostamenti: è questione di qualità della vita e di relazione con lo spazio pubblico. Se ti devi muovere in mezzo a incroci pericolosi, marciapiedi rotti, parcheggi ovunque, con auto che emettono gas inquinanti… non è solo scomodo. È un messaggio che dice: “Questo spazio non è pensato per te”.
E allora è chiaro che quella città, quel territorio, perde appeal. Non ti trattiene. La mobilità oggi è una leva di competitività: se una città non funziona, le persone – soprattutto i giovani – se ne vanno. Punto.
Le nuove generazioni sentono che qualcosa deve cambiare, ma da dove può partire una trasformazione della mobilità? Chi può renderla concreta?
Ci sono diversi fattori da considerare ma, secondo me, alla base di tutto serve una forte volontà politica. Nei trasporti funziona così: l’offerta genera la domanda. Se crei una connessione, le persone iniziano a usarla. Se non esiste, non ci pensano nemmeno. È come un buffet: se lo metti a disposizione, la gente mangia. Il cambiamento richiede una leadership con visione e coraggio, capace di progettare infrastrutture non per il presente, ma per il futuro.
Il problema, oggi, è che chi guida spesso appartiene a generazioni cresciute in un mondo costruito a misura di auto. E se hai interiorizzato un certo modello urbano per trent’anni, fai fatica a immaginarne uno nuovo. Ma una città che non cambia ora rischia di diventare irrilevante domani. Serve una classe dirigente giovane, che abbia la determinazione di trasformare davvero lo spazio urbano.
Eppure… c’è il rischio che certe scelte impopolari costino consenso. Vale la pena rischiare?
All’inizio può essere difficile, ma poi cambia tutto. Sulla base della mia esperienza, posso dire che le politiche sostenibili generano sempre consenso ex post. È successo con l’Area C a Milano: all’inizio era una battaglia, oggi nessuno la mette più in discussione. È uscita dal dibattito politico, pur essendo ancora lì.
Le persone si abituano, e quando vedono i benefici – meno traffico, più sicurezza, più qualità urbana – nessuno vuole tornare indietro. Ma bisogna volerlo davvero. E avere la forza di reggere all’urto iniziale.
“Alla base di tutto serve una forte volontà politica. Nei trasporti funziona così: l’offerta genera la domanda. Se crei una connessione, le persone iniziano a usarla”
La mobilità però non è solo una questione tecnica. Che visione serve per cambiarla davvero?
Bisogna partire dalla domanda più ampia: che tipo di città vogliamo costruire? Dire “mettiamo una pista ciclabile” è necessario, ma non sufficiente. La mobilità è solo un pezzo, e va inserito in un disegno più grande: lo spazio pubblico, la sicurezza, la relazione tra le persone, l’accessibilità. Tutto è interconnesso. Un sistema di trasporti ben fatto ha senso solo se si integra in un territorio progettato per le persone, non solo per le auto. Non si tratta di spostarsi di più: si tratta di vivere meglio.
Ci sono città che stanno già facendo questo passaggio?
Sì. Bologna, per esempio, sta lavorando bene con il progetto Bologna Città 30, creando un ambiente dove andare in bici non è un atto eroico ma normale, credo che anche Verona si stia muovendo nella direzione giusta. Non servono per forza ciclabili ovunque: basta che le auto rallentino, e già cambia l’uso dello spazio. Parigi e Barcellona sono esempi di trasformazione su scala grande: visione chiara, investimenti, e il coraggio di decidere. E funziona. Non dobbiamo reinventare tutto: le strade giuste esistono, basta seguirle.
Spesso si fa distinzione tra centri urbani e territori più sparsi. Cosa cambia davvero tra città e provincia?
Cambia moltissimo. Le città compatte – come quelle in cui opera Fondazione: Verona, Vicenza, Mantova, Belluno, Ancona – hanno una struttura perfetta per la mobilità dolce. Sono attraversabili, a misura di bici e piedi. Da una parte all’altra di Verona ci metti 30-40 minuti con una city bike. Se ci fosse una rete ciclabile sicura e ben fatta, sarebbe una rivoluzione. Invece spesso ci si sente a rischio, anche su percorsi centrali: non siamo all’altezza degli standard minimi europei.
Spesso chi va in bici lo fa “alla danese”, con il bambino nel seggiolino davanti… ma in mezzo alle auto che sgasano. È pericoloso, frustrante. E anche un po’ tenero, perché vedi quel clash culturale tra il tipo di città che le persone vorrebbero e quella che realmente le accoglie. Lì la ricetta è chiara: ciclabilità, pedonalità, e in una linea minore, trasporto pubblico.
“Spesso chi va in bici lo fa alla danese, con il bambino nel seggiolino davanti… ma in mezzo alle auto che sgasano. È un clash culturale tra il tipo di città che le persone vorrebbero e quella che le accoglie”
E fuori città, invece? Nella bassa veronese, nel Nord Est, nei territori più dispersi?
Lì la questione è diversa, e bisogna essere onesti. In questi territori lo sprawl – un fenomeno di dispersione urbana su ampie aree – ha prodotto insediamenti a bassa densità, lontani tra loro, con servizi decentrati. In questo contesto, l’auto è ancora fondamentale. E lo sarà per un bel po’. Sono morfologie urbane che sono nate con il boom di questi mezzi, negli anni Sessanta.
Si può però agire su più livelli: ciclabilità per distanze entro i 10 km (che coprono il 75% degli spostamenti), intermodalità bici-treno, navette su richiesta, e soprattutto elettrificazione della mobilità. Non si tratta di abolire l’auto, ma di usarla meglio, con meno impatto e più intelligenza. E senza giudicare chi, proprio per la conformazione del territorio in cui siamo nati, è costretto a usarla.
E le aziende? Hanno un ruolo in questa trasformazione?
Sì, ma non possono diventare il centro della questione. Le aziende sono chiamate a fare la loro parte: promuovere car pooling, bike sharing, piani di mobilità casa-lavoro. Ma senza una cornice pubblica, senza regole chiare e una visione condivisa, è difficile che bastino. La regia deve essere pubblica. È lo Stato, il Comune, la Regione che devono guidare. Il privato può seguire, può supportare, ma non può cambiare una città da solo.
In sintesi: se volessimo davvero rendere un territorio più attrattivo per i giovani, cosa dovremmo fare?
Serve una visione forte e concreta. Un territorio dove puoi muoverti bene, sentirti sicuro, avere accesso alle infrastrutture in modo semplice e sostenibile è un territorio che attira, che trattiene, che funziona. E oggi, più che mai, le nuove generazioni lo sanno e lo cercano. Ma la mobilità non è solo una questione di mezzi: è anche una questione di spazio pubblico, di come sono pensate le strade, le piazze, gli attraversamenti, le relazioni. È tutto connesso.
Non ci sono soluzioni magiche, ma ci sono molte cose che possiamo già fare. Nelle città, la strada è chiara: ciclabilità, pedonalità, trasporto pubblico. Nei territori più sparsi, si può lavorare su ciclabilità su distanze superiori ai 5-6 km, intermodalità, elettrificazione. Se c’è la volontà politica e una progettazione seria, il cambiamento è possibile. Una città non è attrattiva perché ha una bella piazza o una torre antica. Lo è se ti permette di vivere bene, ogni giorno. Di muoverti senza stress. Di restare perché vuoi restare.

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