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STORIE DI INNOVAZIONE

Innovazione collaborativa e terzo settore: per creare impatto bisogna imparare a lavorare insieme

1 ottobre 2024  |  Tempo di lettura: 7 minuti

De Propris: “La coopetizione (e non la competizione) tra imprese sociali, startup, aziende è la chiave per sviluppare soluzioni efficaci alle sfide di oggi, generando nuovo valore”

In un mondo che corre sempre più veloce, innovare è diventato un imperativo che vale un po‘ per tutti, non solo per il mondo del business, ma anche per il terzo settore e il non profit.

Continuare a migliorare prodotti, processi e servizi è necessario per rispondere alle esigenze che cambiano e rimanere al passo con i tempi, continuando a generare impatto. Spesso, però, aprirsi a nuove tecnologie e strumenti non è affatto semplice, vuoi per mancanza di competenze o, semplicemente, di risorse.

Per aggirare questo problema, negli ultimi anni sta prendendo piede un nuovo paradigma basato sul concetto di innovazione collaborativa: l’obiettivo è far lavorare insieme realtà diverse, come imprese sociali, startup, centri di ricerca e aziende, per favorire lo sviluppo di soluzioni originali, a vantaggio di tutti.

“Per collaborare dobbiamo vincere le resistenze culturali: servono fiducia, umiltà e processi ordinati. I giovani sono nativi digitali e molto attenti all’impatto sociale: possono darci una mano”

Abbiamo parlato di questi temi con Luciano De Propris, direttore dell’area Open Innovation di ELIS (centro di formazione nazionale e consorzio formato da grandi gruppi, PMI, startup e università) esperto in strategie aziendali, sostenibilità e impatto.

Partiamo dalle basi. Perché abbiamo così tanto bisogno di innovazione?

La nostra società vive di cambiamenti costanti e repentini, che accadono a una velocità inimmaginabile rispetto al passato. Spesso queste trasformazioni sono difficili da metabolizzare: vale per ognuno di noi.

Fare innovazione significa prima di tutto imparare a leggere e interpretare le direttrici di questi mutamenti. E poi intervenire, per costruire concretamente scenari futuri positivi, desiderabili. La vera sfida è attivarsi per orientare il cambiamento, evitando di subirlo in modo passivo.

Come si fa? Parlare di innovazione sembra non essere sufficiente: sta prendendo sempre più piede un nuovo approccio che aggiunge l’aggettivo “collaborativa” o “aperta” (open innovation, in inglese). Di che si tratta?

Dobbiamo evitare di confondere il concetto di innovazione con quello di invenzione: abbiamo tutti in mente l’immagine dell’inventore che crea, nell’isolamento del suo laboratorio, qualcosa di nuovo. Ecco, oggi sappiamo che nello scenario attuale questo approccio non funziona più.

Innovare oggi significa “fare insieme con altri”: il cambiamento nasce dal lavorare gomito a gomito, dalla condivisione di competenze, conoscenze e saper fare tra diversi attori, dalle grandi aziende alle startup, dalle PMI alle imprese sociali, dai giovani agli esperti di settore.

Per orientare il cambiamento è quindi essenziale passare dalla competizione alla coopetizione: collaborare per raggiungere obiettivi comuni, invece di voler prevalere sugli altri.

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Quali sono i vantaggi di questo modello?

Ogni attore ha il proprio punto di vista, il proprio modus operandi. Tutti, però, hanno degli angoli bui, dei blind spots. L’innovazione collaborativa aiuta a superarli, ad andare oltre, ad affrontare quelle curve che di solito ci bloccano.

Collaborare aiuta a integrare modelli diversi, da quello leggero e interattivo della startup al know how consolidato della grande azienda, passando dalla visione a impatto delle imprese sociali. Mettere a fattor comune questi approcci significa trovare la soluzione ottimale non solo per la genesi di nuove idee, ma anche per la fase di esecuzione, quella che fa accadere concretamente le cose.

Una sfida non semplice. Quali sono i principali ostacoli che incontrate quando sviluppate progetti di innovazione collaborativa?

Lavorare insieme costa fatica e risorse. Ognuno ha le proprie resistenze, anche culturali. Si viene da mondi diversi, è normale sia così. Alla fine, innovare diventa una questione di fiducia: è necessario abbandonare le proprie convinzioni per aprirsi alle idee delle persone con cui si vuole lavorare.

Tutto questo richiede tempo: è necessario un profondo lavoro di armonizzazione. E ci vuole anche l’umiltà di sedersi allo stesso tavolo per imparare. Mi piace quell’adagio che dice “se vuoi andare veloce vai da solo, se vuoi andare lontano vai insieme”.

Innovazione collaborativa e terzo settore. Si può fare? Quant’è complicato far lavorare insieme un imprenditore sociale e uno startupper?

Tenere insieme business e sociale non è semplice perché sono universi culturalmente distanti. Ma penso sia una sfida davvero affascinante perché permette di scrivere scenari di futuro che creano valore per le persone, rispondendo a bisogni concreti e generando un impatto sul territorio.

Da una parte, gli imprenditori sociali sono molto dediti e vocati, ma spesso poco reattivi nell’usare soluzioni innovative e digitali o modelli “scalabili”, economicamente sostenibili. Dall’altra, le startup tendono a muoversi in una bolla, secondo schemi consolidati, inseguendo fatturato e collaborazioni con grandi aziende, che arricchiscono il curriculum in vista del grande salto.

“Collaborare aiuta a integrare modelli diversi, da quello leggero e interattivo della startup al know how consolidato della grande azienda, passando per la visione a impatto delle imprese sociali”

La vostra esperienza dice però che, quando questa distanza viene colmata, le cose accadono per davvero…

Sì, è così. La collaborazione crea progetti a grande valore aggiunto, con vantaggi per tutti. Quando gli stakeholder realizzano che, in fondo, si può lavorare insieme per raggiungere obiettivi condivisi, imparando gli uni dagli altri, la strada è tutta in discesa.

Grazie a programmi come i nostri, le grandi corporation hanno modo di rileggere e interpretare al meglio il loro ruolo sul territorio. Le imprese sociali toccano con mano l’importanza della tecnologia e della sostenibilità economica per servire meglio le proprie comunità. Le startup scoprono, invece, che si può avere un impatto e migliorare il mondo anche senza diventare unicorni da un miliardo di dollari.

Concretamente, su quali strumenti puntare perché questo avvenga?

Ci vogliono dialogo e comunicazione perché bisogna imparare a parlare la stessa lingua. In questo senso, il coinvolgimento dei giovani diventa essenziale per programmi di innovazione collaborativa di successo: sono nativi digitali, hanno dimestichezza con le nuove tecnologie e hanno interiorizzato i valori dell’impatto sociale come nessuna delle generazioni che li ha preceduti. Un punto di congiunzione perfetto tra mondi diversi.

E poi c’è anche bisogno di tanto ordine: non è possibile collaborare in maniera improvvisata. Serve conoscere, codificare e implementare processi che rendano fluido il lavoro.

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Quali spazi di confronto esistono in Italia per fare innovazione collaborativa a impatto sociale?

Penso che le fondazioni di origine bancaria siano uno dei luoghi privilegiati per portare avanti progetti di questo tipo in Italia. Conoscono bene il territorio, possono stimolare gli enti del terzo settore a intraprendere percorsi di innovazione e sono in grado di agganciare il mondo delle startup e delle PMI.

Lo dimostra anche il successo delle varie edizioni di Foundation Open Factory, programma che abbiamo sviluppato proprio in collaborazione con Fondazione Cariverona, Fondazione Caritro, Fondazione Cariparo, Fondazione Sparkasse Bolzano e Fondazione VRT.

Quali sono i settori che ritiene pronti per iniziative di questo tipo?

Stiamo lavorando su diversi fronti con ottimi risultati. Vedo particolarmente reattivi il settore della transizione ecologica, soprattutto produzione di energia e agrifood, ma anche quello dei servizi socio-assistenziali, in particolare la silver economy e la telemedicina. Abbiamo diversi progetti di innovazione collaborativa attivi anche in ambito cultura, welfare e sport, con un focus sull’accessibilità e sull’inclusione sociale.

“Le fondazioni di origine bancaria sono luoghi privilegiati: conoscono bene il territorio, possono stimolare gli enti del terzo settore e sono in grado di agganciare il mondo delle startup e delle PMI”

Allargando lo sguardo, come siamo messi in Italia rispetto agli altri Paesi europei?

A me piace guardare il bicchiere mezzo pieno… e lavorare per riempire l’altra metà! In Italia vedo grandi potenzialità: possiamo contare su una tradizione consolidata di “sapere fare”, sulla nostra creatività e su un’ottima ricerca di base. Anche sul piano dell’innovazione sociale e del non profit siamo un riferimento a livello europeo. Tutti ingredienti ideali per programmi di innovazione collaborativa.

Allora cosa ci manca? Come facciamo a riempire l’altra metà del bicchiere?

Paesi come Stati Uniti, Regno Unito, Francia e Germania sanno investire di più e meglio in innovazione. Dobbiamo accelerare… E sono anche più bravi di noi a lavorare in squadra. Anche qui il viaggio è lungo, ma siamo già sulla buona strada.

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