Ripamonti: “La partecipazione è essenziale per progetti efficaci e sostenibili, ma non basta far sedere al tavolo dieci enti perché lavorino bene insieme. E non è vero che oggi i giovani siano meno coinvolti. Anzi, quando si creano opportunità autentiche fanno la differenza”
La partecipazione è in crisi? Come costruire comunità solide e inclusive? Come imparare a lavorare insieme e coinvolgere le persone in un progetto? Attorno a queste domande ruota gran parte dei programmi di innovazione sociale sostenuti dalla Fondazione.
È un dibattito essenziale in un mondo sempre più frammentato, che attraversa diversi fenomeni: dall’astensionismo elettorale al protagonismo dei giovani, dall’amministrazione condivisa alla collaborazione tra profit e non profit. Per fare luce su questi temi abbiamo intervistato Ennio Ripamonti, socio fondatore e presidente dell’organizzazione Metodi, professore presso diversi atenei ed esperto di sviluppo di comunità.
“Perché coinvolgere? Gli studi dimostrano che i progetti nati dal basso, dalle comunità, sono più responsivi: riescono, cioè, a rispondere meglio ai bisogni reali delle persone e ad adattarsi ai fattori ambientali”
Facciamo un passo indietro. Partecipazione e coinvolgimento sono diventate parole chiave per qualsiasi progetto. Ma ne abbiamo realmente bisogno? Non è un dispendio di energie e risorse che potrebbero essere destinate ad altro?
Gli studi dimostrano che i progetti in grado di coinvolgere dal basso le comunità sono i più responsivi: riescono, cioè, a rispondere meglio ai bisogni reali delle persone e ad adattarsi ai fattori ambientali.
Pensiamo a un’iniziativa a sostegno di famiglie con bambini piccoli: se invece di calarla dall’alto, coinvolgiamo e rendiamo partecipi i genitori, raccogliendo le loro esigenze e ascoltando le loro opinioni, riusciremo poi a mettere in campo soluzioni più efficaci, centrate e su misura. Certo, è un processo che costa fatica… ma è essenziale per ottenere risultati concreti e migliorare realmente la qualità di vita dei beneficiari finali.
A proposito di fatica… pensa che oggi collaborare sia diventato più difficile?
La collaborazione è sempre stata un processo sociale sofisticato. Non è sufficiente mettere attorno allo stesso tavolo dieci enti diversi per cultura, mission e valori perché lavorino bene insieme. Penso che, rispetto al passato, il panorama sociale sia radicalmente cambiato. Fino alla fine degli anni Ottanta del Novecento il Paese era dominato da poche grandi organizzazioni nazionali con sedi locali, come la Chiesa, i sindacati o i partiti di massa.
Poi siamo andati incontro a una progressiva frammentazione: oggi, in qualsiasi comune, anche piccolo, il numero di associazioni è almeno 10 volte superiore. Imprese sociali, cooperative, gruppi locali, enti formano uno scenario variegato, con vantaggi e svantaggi. Una maggiore ricchezza di soggetti, punti di vista, cultura ma, di contro, molta più autoreferenzialità.
Non c’è dubbio che far collaborare 20 piccole realtà, invece di tre, è più complesso. Per questo motivo abbiamo bisogno di nuove competenze, di un’intelligenza connettiva, di persone che, all’interno di un progetto, sappiano ad esempio interagire e creare relazioni tra scuola, servizi sociali, parrocchia, compagnia teatrale…
Le persone che sanno far girare bene la collaborazione sono quindi sempre più richieste. Come acquisire queste competenze?
Imparare a fare rete non è scontato. Oltre ai corsi specifici, le competenze si acquisiscono soprattutto nella vita di tutti i giorni, sperimentando sul campo. I giovani, da questo punto di vista, hanno una marcia in più e possono darci una mano perché, a differenza della generazione che li ha preceduti, sono pluri-appartenenti: appartengono, cioè, a più gruppi contemporaneamente, sono pronti a lanciarsi in nuovi percorsi, magari per brevi periodi e cambiano più spesso “casacca”.
In questo modo sviluppano la capacità di sintonizzarsi con culture organizzative diverse, diventando veri e propri poliglotti: imparano a parlare la lingua degli enti del terzo settore, del pubblico, del privato.
Ha parlato di giovani… Un altro grande tema, quando si parla di progetti di sviluppo di comunità, è quello del coinvolgimento delle nuove generazioni. Come fare?
Liberiamo il campo da qualche luogo comune. Innanzitutto, non è vero che le nuove generazioni partecipano o votano meno rispetto alle altre classi d’età: le statistiche mostrano che la media è abbastanza in linea. Il vero problema è che oggi gli under 35 sono oggettivamente pochi, una minoranza, in netto calo rispetto al passato. Del resto, siamo il Paese più vecchio d’Europa e nel giro di vent’anni abbiamo perso oltre tre milioni di giovani tra i 18 e i 34 anni.
C’è poi da considerare che oggi i ragazzi studiano di più rispetto alle generazioni precedenti: gli universitari fuori sede, ad esempio, partono da casa il lunedì mattina e tornano il venerdì sera. Quindi, semplicemente, non vivono il loro territorio. E poi penso che i giovani di oggi siano molto più attenti alla qualità della partecipazione.
“I giovani hanno una marcia in più perché, a differenza della generazione che li ha preceduti, sono pluri-appartenenti: appartengono, cioè, a più gruppi contemporaneamente, sono pronti a lanciarsi in nuovi percorsi”
Sarebbe a dire?
Come accennavo prima, rispetto al passato, l’offerta di enti, associazioni, organizzazioni attivi sul territorio è oggi molto più ampia. La concorrenza è alta: non ci sono solo l’oratorio, la banda e la pro loco. I giovani scelgono accuratamente esperienze di volontariato che li facciano crescere sul piano umano e professionale, grazie alle quali possano vivere momenti di convivialità e di amicizia, anche attraverso la tecnologia.
La decisione non si basa solo sull’orientamento etico-valoriale. E, anzi, scappano a gambe levate se percepiscono un ambiente poco stimolante, tradizionalista o paternalista… È quindi importante che ogni realtà si interroghi sulla propria cultura organizzativa e su quello che ha da offrire alle nuove generazioni. Perché un giovane dovrebbe scegliere di diventare un nostro volontario?
Come fare, quindi, a coinvolgere persone lontane, che non hanno interesse o sensibilità verso un determinato progetto e andare al di là dei “soliti noti”?
Il sociologo Robert Putnam ha identificato due tipologie di capitale sociale, cioè di legami di fiducia, attraverso cui costruire comunità: bonding e bridging. Il primo rinforza il cuore della nostra attività o del nostro progetto. Si diventa sempre più bravi e “riconosciuti” in quello che si fa, magari anche grazie al coinvolgimento di persone carismatiche o a una comunicazione specifica. Si cresce quindi per attrazione, come una calamita, puntando sulla forza e sulla bellezza dell’iniziativa. Un esempio, in questo senso, può essere Emergency.
Se invece non si hanno a disposizione questi ingredienti, si può puntare su tecniche bridging, che aiutano a uscire dalla propria comfort zone per andare verso gli altri. Le strategie sono tante: dai focus group alla ricerca sul campo, dall’osservazione controllata alla ricerca tra pari. Se ad esempio vogliamo coinvolgere dei giovani di seconda generazione all’interno di un quartiere difficile, dovremo magari strutturarci per agganciarne prima una decina, che poi facciano da ponte, usando le loro reti di contatto per poi trascinare anche gli altri. La domanda chiave, quindi, è: di quale capitale sociale ho bisogno per il mio progetto?
Ammesso che il nostro progetto riesca a raggiungere i risultati sperati, c’è sempre il nodo della sostenibilità nel medio lungo-periodo da tenere presente…
Sulla base della mia esperienza, per un progetto di comunità vedo tre strade percorribili. La prima: l’ente pubblico subentra stabilmente e l’iniziativa diventa una vera e propria policy. Qui c’è spazio per forme di amministrazione condivisa… occhio però ai venti mutevoli della politica. La seconda: ci si trasforma in impresa sociale, trovando fonti di sostentamento interne, producendo beni o servizi. In questo caso, serve una mentalità imprenditoriale.
La terza, forse meno battuta ma più innovativa: ci si apre a collaborazioni con il privato profit. A differenza di quanto spesso si pensa, ci sono tante realtà che potrebbero essere interessate a prendere parte a programmi di questo tipo, dal negozio alla multinazionale con una sede nel quartiere. Come dicevo prima, per creare nuove sintonie bisogna essere poliglotti.
In tutti e tre i casi si tratta quindi di riscoprire il valore della collaborazione. È così?
Esatto, torniamo al principio: collaborare, fare rete, investire sulla governance. Spesso si fa fatica a comprendere il valore di queste attività, ma se fino all’ultimo giorno di finanziamento si rimane a lavorare a testa bassa sul progetto, senza costruire un network di alleanze che lo sostenga, quando si stacca la spina muore tutto. Per questo motivo è necessario imparare a dialogare con il pubblico, il privato, l’imprenditoria sociale, ecc. E magari valorizzare un piccolo tassello che di solito sfugge ai radar…
Di cosa si tratta?
Il nostro Paese è sempre stato ricco di comunità locali molto vivaci, in cui convivono realtà piccole, poco formalizzate, non riconosciute, dal gruppo di mamme al comitato di quartiere. Di solito sono attori intraprendenti, attrattivi, vicini ai bisogni delle persone e svolgono un prezioso ruolo di “antenne” per la comunità, anticipando fenomeni che le grandi associazioni non vedono arrivare.
Se intercettata e incanalata, questa microfisica della partecipazione può portare nuova linfa ai nostri progetti e radicare le nostre partnership sul territorio.
“Collaborare, fare rete, investire sulla governance. Spesso si fa fatica a comprendere il valore di queste attività, ma se fino all’ultimo giorno di finanziamento si rimane a lavorare a testa bassa sul progetto, quando si stacca la spina muore tutto”
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